2020 l’anno che verrà

Cari amici vi scrivo….

Riprendendo le parole della nota canzone di Lucio Dalla ho pensato di scrivere alcune riflessioni sull’anno che è stato e su quello che verrà.

Parto da una personale valutazione. Negare che la politica non incida nella nostra qualità di vita e staccare la spina dal sistema non è a mio avviso un giusto atteggiamento. Specie in questo periodo di generale assopimento consumistico delle menti. Anche se bisogna dire che gli esempi che ci offrono gli attuali interpreti della politica (partiti e rispettivi leader) non sono certo incoraggianti a far avvicinare e a far vivere la politica alla popolazione e far dialogare elettori e eletti.

Indipendentemente dall’area ideologica di provenienza non possiamo dire che l’attuale scenario dei partiti non sia assai confuso. Per anni si è cercato di raccogliere i consensi all’interno di 2/3 partiti ma a quanto pare il tentativo è andato male, visto che oggi ci sono più partiti di quelli che si volevano eliminare. Per non parlare delle varie esperienza indipendentiste e/o statualiste che si sono parcellizzate in mille rivoli senza mai ottenere tangibili risultati.

In realtà siamo pieni di distinguo e di particolarità fino a dire: “Sono d’accordo…però…”.

Certo il pluralismo in democrazia è vita ma a tutto ci deve essere un limite. Con questo non voglio dire che il maggioritario sia la panacea di ogni male. Peraltro il populismo avanza facendo leva sul grande senso di insicurezza che avvertono molti cittadini. Parlo di lavoro, pensioni, sanità, inquinamento, povertà e ultimi, ma non ultimi, di migranti e soprattutto di ….cultura. Si proprio di cultura. Perché quella che avevamo la stiamo perdendo e a quanto pare la nuova cultura dominante ritiene superfluo che si conosca il valore della lingua di un popolo, la conoscenza della sua preistoria e storia, delle sue più autentiche tradizioni. La conoscenza del suo ambiente

Molti in questo periodo guardano sempre più a ciò che esiste fuori dalla Sardegna, meglio se collegato alle più sofistica tecnologie e si trasferiscono all’estero per motivi di lavoro e per cercare una nuova opportunità, sovente senza neppure cercare di investire in se stessi e nella Sardegna. Questo è una manifestazione di profonda sfiducia. Per un verso sarà anche vero che i nostri mali endemici fatti di gelosia, invidia e individualismo sono difficili da estirpare ma è anche pur vero che ci sarà un motivo per cui questi mali continuano a essere così presenti, radicati e diffusi. Ma  non dobbiamo rassegnarci. Io credo che buona parte di questi mali derivi da un generale senso di sfiducia in se stessi, stato d’animo che affievolisce la consapevolezza sui propri mezzi e capacità e distorce la conoscenza delle vere risorse che la Sardegna possiede e offre.

Per altro verso questo senso di sfiducia e di inadeguatezza sembra come ben tollerato da una buona parte della nostra classe dominante che fa finta di cambiare tutto per non cambiare niente. Il problema di fondo è poi quello di sempre: una più equa distribuzione della ricchezza, presenza di opportunità soprattutto per i giovani e garanzie per coloro che più giovani non sono. Questi temi sono drammaticamente presenti.

A questo proposito ricordo le parole di un noto politico sardo che, quando alla mia proposta di dare lavoro ai giovani diplomati degli Istituti superiori turistici, così come aveva fatto la Regione Calabria con l’istituzione di una nuova figura professionale “Guardia turistica, mi disse: vedi Roberto tu non capisci nulla di politica…Io i problemi non li devo risolvere, semmai creare! Altrimenti chi verrà più da me per chiedermi favori?

Certo con questo non voglio dire che siano tutti così…ce ne possono essere anche di peggio. Ma scherzi a parte le cose oggi non sono molto cambiate da allora. Sono cambiati i contesti, i linguaggi, le procedure ma i risultati non si discostano di molto. Sicuramente è migliorata la scolarizzazione ma questa non è andata di pari passo con l’acquisizione di competenze trasversali, sensibilità diffuse e di padronanza territoriale.

Dico questo perché non basta nascere o vivere in Sardegna per affermare di essere sardi. La Sardegna ha bisogno di essere conosciuta, compresa e curata. Per questo non occorrono particolari titoli di studio basta l’impegno, la passione e il senso civico, poi il resto verrà da solo.

E allora dobbiamo rassegnarci?

Tutt’altro, semmai trovare nuovo slancio per colmare queste lacune che penalizzano il futuro di tutti.

Per iniziare smettiamo di farci gli affari nostri e preoccupiamoci anche di quelli di interesse generale visto che, comunque, facciamo parte di una comunità e che il bene comune, il bene pubblico è di tutti, quindi anche nostro. Educhiamoci a fare questo.

Dovremmo darci delle priorità, dotarci di sana curiosità e impegnarci quotidianamente a conoscere meglio la nostra terra a tutto campo per individuarne i suoi punti di forza e di debolezza, magari privilegiando gli aspetti che ci sono più congeniali, ma sempre senza trascurare i rispettivi contesti di riferimento.  Poi fare quello di cui abbiamo bisogno, ovvero offrire i servizi che sono assenti o scarsamente presenti, sia per noi che per coloro che trascorrono in Sardegna le vacanze: i turisti.

In realtà i primi turisti della Sardegna dovrebbero essere i residenti che più e meglio di altri avrebbero diritto e dovere di conoscere e sapere ma che per il solo fatto di viverci…spesso rimandano a domani.

Si perché sono fermamente convinto che il Turismo possa dare alla collettività dei grandi risultati anche nel breve-medio periodo. Turismo soft, sostenibile non certamente Turismo aggressivo o di massa.

Del resto molti sardi pare non abbiano capito una cosa. La Sardegna piace proprio perché è così diversa da tanti altri luoghi del mondo. Ma facciamo attenzione a non esasperarne la unicità, semmai evidenziamo sapientemente le sue diversità. In altre parole dobbiamo imparare a saper comunicare ciò che la Sardegna realmente è senza chiudere gli occhi sul resto del Mediterraneo e del mondo. Oggi più che mai bisogna agire localmente e pensare globalmente. Ma per fare in modo che questa strategia abbia un senso occorre colmare le lacune di cui sopra parlavo e riempire di contenuti il gap culturale che si è realizzato in Sardegna fra gli anni 50’ e 70’ quando in ragione del progresso e del benessere abbiamo rinnegato tutto quello che di più caro e autentico possedevamo, ovvero la identità e la dignità. I piani di sviluppo hanno come resettato questi valori nella errata convinzione che la modernità dell’industrializzazione petrolchimica ci avrebbe fatto solo del bene.  Oggi siamo come rassegnati e assuefatti alle grandi bugie di un manipolo di spregiudicati imprenditori che a distanza di anni continuano, imperterriti a inseguire il proprio business con il raggiro dei CIP 6. Per questa chimera e salvo eroiche eccezioni abbiamo abbandonato la campagna, la pastorizia, l’artigianato, la pesca e il turismo dando un duro colpo a quelle che erano e che ancor oggi a mio avviso sono la nostra grande vera unica risorsa. Recuperiamo dunque il tempo trascorso iniziando a studiare sin dalla scuola di infanzia la storia della Sardegna e dei sardi e non solo quella dei fenici, punici, romani, bizantini, vandali, pisani, catalani, spagnoli, austriaci e piemontesi. Solo attraverso la conoscenza della Sardegna, delle sue caratteristiche, risorse ambientali, produzioni tipiche e del nostro importante passato potranno derivare le competenze e le sensibilità necessarie per fare del bene a noi stessi, alla Sardegna e al suo popolo e cosa ancor più bella …senza essere obbligati a emigrare.

Sono fiducioso che nell’anno che verrà qualcosa di buono in tal senso arriverà.

Roberto Copparoni per gli Amici della Sardegna

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