Cannelas alludas

Visto il buon successo ottenuto oggi pubblichiamo la seconda parte del racconto di Giorgio PCA Mameli anch’esso ambientato nel cuore della Sardegna. Buona lettura.

II parte

Tornarono in sella e prima di muovere stettero attentamente in ascolto dei rumori del bosco. Non era una precauzione da poco, come si usava dire da quelle parti: i banditi di qui sono capaci di pisciarti in faccia senza neanche farsi vedere. E non era un modo di dire: sapevano camminare senza pestare un arbusto o un ramo secco e stare sdraiati immobili come ciocchi di legno, senza emettere un fiato e confondersi con il terreno. Gli si poteva passare a pochi centimetri di distanza senza neppure accorgersene. Erano capaci di marciare per ore senza stancarsi e su tutti i tipi di terreno, erano pericolosi, per loro uccidere, con il fucile o il coltello, era un fatto normale, di più naturale, si trattasse di animali o di uomini non faceva differenza. Per questa loro qualità erano stati assoldati dalle compagnie del continente venute a tagliare gli alberi per farne carbone. Queste volevano lavorare indisturbate mentre distruggevano i boschi e nessuno doveva guardare mentre uccidevano la natura e chiamavano tutto questo progresso. Questa volta però i balentes [uomo di valore, che sa vivere in ambiente aspro, per traslato bandito] avevano esagerato: aver disperso le greggi e aver rubato qualche capo poteva rientrare nell’ordine delle cose, il codice lo ammetteva, ma aver incendiato l’ovile e ucciso i due pastori, sgozzandoli come fossero capretti non era fatto da potersi accettare senza risposta. Questa doveva essere chiara, netta, precisa e non lasciar adito a dubbi. Per loro e per tutti gli altri   Ripresero il cammino, ora Grazianeddu era al comando, lui aveva la conoscenza della lingua degli alberi e delle pietre, con loro parlava e loro gli rispondevano. Per questo Grazianddu sapeva seguire le tracce di chiunque, fosse uomo o animale: gli alberi e le pietre gli indicavano la strada. Seguirono il corso del torrente per oltre un’ora fino a quando questo deviò verso sinistra e allora lo attraversarono e ripresero a salire e a scollinare. Talvolta procedevano a piedi per non affaticare i cavalli e fargli riprendere fiato. Il silenzio era rotto, di tanto in tanto, dal grido di una poiana: volteggiava a cerchio sopra le loro teste e sembrava li stesse seguendo, bisbigliò Efisio. Rispose con un cenno Grazianeddu: non li stava seguendo, indicava loro la strada. Don Gavinu taceva, ultimo di quella breve colonna, ascoltava quel dialogo muto e guardava il cielo. I suoi pensieri erano concentrati sull’obiettivo: catturare gli assassini e consegnarli alla giustizia. Non sarà facile convincere Efisio, uno dei due pastori uccisi era suo cugino, pensò. Ma questo deve essere fatto e così sarà fatto, disse tra sé Don Gavinu. Il verso del rapace faceva tacere tutti gli altri animali: se ne stavano ben accucciati e silenti. Allo stesso tempo ogni rumore era amplificato da quel silenzio. Mancava poco al tramonto quando arrivarono nei pressi dell’ovile. I tre uomini scesero dai cavalli: Grazianeddu e Don Gavinu procedettero a piedi, facendo un giro largo: uno verso destra e l’altro a sinistra. Sapevano che vi avrebbero trovato nessuno, ma meglio essere prudenti. Grazianeddu fece il verso della Stria e a breve apparve Efisio con i tre cavalli. Facevano male al cuore quelle rovine. Su alcune pietre si vedevano ancora tracce di sangue. Grazianeddu perlustrò il terreno tutto intorno e fece un cenno col capo per assentire, un sì silenzioso e grave, così diceva di aver capito e indicò la direzione. Si spostarono tenendo i cavalli alla mano e camminarono per una decina di minuti fino a quando trovarono una grotta. Grazianeddu sorrise, la conoscva: sapeva dov’era. Cenarono velocemente e si sistemarono per la notte, non sarebbe stata lunga. Era ancora buio quando ripresero la caccia. Diverse volte dovettero ritornare sui loro passi, quei balentes sapevano il fatto loro: avevano lasciato false tracce, ma Grazianeddu dopo alcuni giri viziosi capì il metodo e la marcia riprese spedita. Si fermarono ad una pozza per abbeverare i cavalli, il silenzio era assoluto. Don Gavinu prese dalla bisaccia un formaggio, se lo rigirò pensoso tra le mani per qualche secondo, con sa resolza[coltello a serramanico tradizionale sardo] ne tagliò una fetta e la appoggiò sulla sella, fece lo stesso con un pane e mangiò in silenzio: un morso al formaggio e uno al pane. Quand’ebbe finito si scrollò le briciole dal panciotto e dalla giacca. Chiuse il coltello dopo averlo pulito nel fazzoletto e se lo rimise in tasca. I minuti scorrevano lenti. Nessuno aveva fretta. Sapevano della ineluttabilità della vita e quanto poco senso abbia cercare di anticiparla, tutto succede quando deve succedere. Efisio immerse la bottiglia impagliata nella pozza e quando fu piena la passò a don Gavinu, questi ne prese lunghi sorsi poi la porse a Grazianeddu che a sua volta, quando ebbe bevuto, la ritornò a Efsio. Quando il giro fu chiuso, senza una parola, ripresero il cammino a piedi, tenendo i cavalli alla briglia. Camminavano senza far rumore e anche i passi dei cavalli erano muti. La luce stava perdendo di intensità, la giornata si stava chiudendo e anche il bosco stava finendo, Grazianeddu si fermò e, senza muoversi, girò su sé stesso.

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