La Cadillac Eldorado color verde acqua III parte

di Giorgio PCA Mameli

Piazzai il suo borsone sul microscopico sedile posteriore della Duetto e mi misi alla guida, lei girò la testa verso di me e abbozzò un sorriso, sembrava dire: Bravo, ce l’hai fatta. Ora vogliamo partire? Risposi muto girando la chiave d’avviamento, il motore emise il solito borbottante canto e partimmo.

Mentre ci allontanavamo lanciai ancora uno sguardo pieno d’amore alla Cadillac Eldorado, color verde acqua abbandonata sulla strada che da Chia porta a Cagliari.

Lei guardava dritto davanti a sé, non disse una parola e io la assecondai. Mi pareva di viaggiare solo e godevo della sinfonia del motore e degli scorci di paesaggio fino a quando arrivammo a Cagliari.

«Io sono Lee Jeane Thompson e tu?» disse.

«Manrico» risposi secco senza distogliere lo sguardo dalla strada anche se ne avevo una voglia matta e sopratutto, ostentatamente, non diedi alcun segno per il confidenziale passaggio al tu.

«Bene Manrico. Tu, dove abiti?» chiese.

«Nella zona di Stampace» risposi.

«Allora puoi lasciarmi davanti alla stazione, prenderò un taxi. Io vado da tutt’altra parte» disse lei.

Lanciai, senza parere, un’occhiata all’orologio, ormai mancavano pochi minuti alle otto, non sarei mai riuscito ad arrivare in tempo al teatro Lirico. Il Don Carlos era perso. Mi maledii con forza. Ma lo feci in silenzio.

Guidai lentamente verso la stazione e quando vi giunsi non c’erano taxi.

«Se ti fa piacere posso accompagnarti» dissi, sforzandomi di guardare ben dritto sulla strada anche se con la coda dell’occhio cercavo di captare ogni suo movimento.

«Io abito da una mia amica a Villanova. Conosci via san Saturnino?»

«Certo – risposi – ci abita una mia vecchia zia.» Non era vero ma mi sembrava una bella risposta.

«Okey,  allora andiamo là» disse.

«Lo sai di essere molto direttiva, vero?» dissi.

«Sì» fu la risposta. Semplice, asciutta, sintetica.

Dal secchiello prese il cellulare  e schiacciò due volte un tasto. Rimase un bel po’ di tempo con l’apparecchio incollato all’orecchio, senza parlare. Nessuno rispose alla sua chiamata.

Intanto eravamo arrivati alla fine di via Roma e dopo un paio di svolte imboccai via Regina Elena, superato il Bastione mi infilai nelle viuzze che portano a san Saturnino.  Fermai dove lei mi indicò. Scese rapida dall’auto, afferrò il borsone, mi salutò con un bye-bye: aveva tutta l’aria di essere definitivo e soprattutto di non attendere alcuna risposta. Si diresse verso il portone. Spensi il motore e rimasi seduto in auto, la guardavo camminare: aveva un incedere regale.

Sciolse il nodo del foulard e lo face scivolare dal capo alle spalle mentre pigiava un campanello. Attese una decina di secondi, pigiò una seconda volta e attese molto meno e poi in sequenza una terza ed una quarta volta. Quindi la sentii chiaramente dire: «Shit… Fucking bastard…»

Si girò, mi vide e disse: «Sei ancora qui?»

«Già – risposi – Vuoi continuare a maledire il mondo o preferisci mangiare qualcosa?»

«Tipo?» rispose.

«Puoi scegliere tra carne e pesce.»

«Se dico carne?» domandò.

«Dovremo fare qualche chilometro in più, ma sarà un’esperienza unica.»

«Vada per l’esperienza unica.»

Rimise il suo borsone sul sedile posteriore e si calò nuovamente nella Duetto. Spostò gli occhiali dal naso al centro della testa quasi fossero un ferma capelli e svelò i suoi occhi. Erano grigioverdi, più grandi di una moneta da due euro. Non c’è uomo al mondo che non avrebbe voluto caderci dentro. Ma erano occhi impossibili. Erano belli e infidi come un ghiacciaio in primavera.

Non mi chiese dove intendessi condurla. Si sentiva talmente sicura di sé da non temere alcuna situazione. Non si rimise il foulard e neppure fece scendere gli occhiali sul naso. Di proposito non la guardai.

Misi in moto e mi diressi verso la strada 128, direzione Barbàgia. A giugno le giornate sono infinitamente lunghe e i tramonti di Sardegna sono incredibilmente emozionanti. La luce del giorno si stava attenuando pigramente mentre noi correvamo verso nord. Le auto si diradavano sempre di più. Dopo neanche mezz’ora di viaggio eravamo soli. I suoi capelli a coda danzavano nell’aria.

«Questa strada mi ricorda quella che da Trinity porta a Houston» disse.

Io tacqui.

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