“Una Piccola Storia”: 1794, “Sa Die de Sa Sardigna” –  Cagliari insorge

La  legge regionale n. 44 del 14 settembre 1993, stabilì che la sollevazione, scoppiata il 28 aprile del 1794, che portò alla cacciata dei piemontesi da Cagliari e da tutta la Sardegna, fosse da considerarsi festa regionale col nome di “ Sa Die de sa Sardigna”. Per alcuni anni la ricorrenza è stata celebrata con  una rappresentazione rievocativa, nel quartiere Castello. Foto del titolo: la rappresentazione di un processo durante le celebrazioni per “Sa die sa Sardigna”  

di Sergio Atzeni

Al di là dei fatti, sarebbe interessante capire se la ribellione del 28 aprile 1794 che ora chiamiamo “Sa Die de sa Sardigna”  sia stata sentita dal popolo, perché cosciente della propria condizione, per ottenere concessioni politiche e  un migliore modo di vivere o fu solo uno strumento in mano ad alcuni personaggi che volevano ottenere dei vantaggi personali e per il ceto sociale a cui appartenevano.

L’anno precedente, il 1793, era stato decisivo per le sorti della  Rivoluzione Francese e degli ideali che l’avevano  ispirata,  sistemati i conti con la nobiltà, si cercò di esportare  la rivoluzione negli altri stati europei per diffondere i criteri di libertà e uguaglianza e la conseguente abolizione dei privilegi dei nobili.

I Francesi decisero di attaccare e conquistare la Sardegna pensando che  sarebbero stati accolti  a braccia aperte perché, almeno in teoria, volevano portare democrazia e giustizia sociale e del resto, avevano suscitato simpatie  nello stesso  Piemonte, le cui condizioni di vita erano di sicuro migliori della nostra isola.

La situazione della Sardegna, alla fine del ‘700, era quanto mai disperata con il 90% di analfabeti, il 5%  sapeva leggere e scrivere, il 3% aveva un titolo di studio inferiore ed il rimanente 2% un titolo superiore o una laurea. Il popolo veniva sfruttato dai feudatari che esigevano  tributi più del dovuto e pativa la fame per la mancanza dei generi alimentari di base come il pane: non di rado interi paesi insorgevano spinti dalla fame e dalla disperazione.

Tutti gli impieghi  pubblici erano occupati dai piemontesi, ai sardi rimanevano solo i lavori più umili e poco remunerati, mentre una nuova classe locale composta  da commercianti,  professionisti e da piccoli nobili  con titoli acquistati, si arricchiva sulle spalle dei poveri e mirava ad ottenere posti e incarichi di prestigio nella amministrazione del regno.

Il viceré  Balbiano non mostrò alcuna preoccupazione della minaccia francese, forse perché cosciente del mancato interesse popolare dovuto in gran parte alla disinformazione e all’ignoranza e convinto che a nessuno poteva venire in mente di possedere una terra così povera e arretrata come la Sardegna. Gli stessi Savoia attendevano una occasione propizia per barattarla con altro dominio più conveniente.

I nobili, i signori arricchiti ed i feudatari invece furono colti dal panico alla sola idea di perdere privilegi e le proprietà e per questo si prepararono ad affrontare la situazione nel caso ormai certo di un  attacco.

A proprie spese assoldarono dei miliziani e costruirono una serie di fortilizi lungo i litorali più esposti a degli sbarchi come la spiaggia di Quartu, mentre i piemontesi iniziarono la costruzione del forte di Sant’Ignazio nel colle di Sant’ Elia.

Come previsto i francesi arrivarono e l’otto gennaio 1793 una loro squadra  comandata dall’ammiraglio Truguet  occupò, senza trovare resistenza alcuna, l’isola di S. Pietro che venne chiamata “isola della libertà”; pochi giorni dopo fu la volta di S. Antioco.

Il 22 gennaio le spedizione francese forte di 70 navi di cui 27 da guerra, con seimila soldati a bordo, compresi volontari corsi e provenzali, comparve nel porto di Cagliari, l’arcivescovo Melano si affrettò a benedire il Bastione di  S. Efisio che difendeva il porto dove posizionò la statua del santo a protezione della città.

Dopo l’affondamento di una piccola imbarcazione francese con a bordo degli inviati per parlamentare, iniziò il bombardamento della città, che durò sei ore,  con molto spavento ma con pochi danni, seguì uno  sbarco al Margine Rosso ma le due colonne transalpine, che tentavano l’avvicinamento a Cagliari, furono fermate dai miliziani e costrette e retrocedere e tentare di reimbarcarsi; seguirono  ancora due bombardamento con molto rumore ma con pochi effetti.

Il 17 febbraio di quel 1793 la flotta Francese all’ancora nel golfo di Cagliari venne seriamente danneggiata da una vento fortissimo di levante, molte imbarcazioni furono letteralmente sbattute sul litorale, in preda allo sconforto l’ammiraglio Truguet ordinò di abbandonare l’impresa.

Gli artefice di questa vittoria, seppur aiutati da quella opportuna burrasca di vento,   furono i miliziani  sardi e quindi i signori ed i ricchi che li avevano reclutati, anche S. Efisio, secondo alcuni vi contribuì;  il popolo invece rimase solo terrorizzato e non prese parte attiva alla difesa, ci furono alcune manifestazioni filo francesi  che si risolsero con qualche scritta inneggiante e qualche bandiera timidamente esposta, sicuramente ad opera di pochi intellettuali che del resto furono immediatamente arrestati per ordine del viceré, che si mostrò attento, almeno in questa occasione.

Sull’onda di questa vittoria,  una delegazione degli Stamenti  (Bracci in cui era diviso il parlamento Sardo), sperando in una nella riconoscenza del sovrano sabaudo Vittorio Amedeo II  per la fedeltà dimostrata verso la corona e per gli atti di eroismo che avevano  impedito ai Francesi la conquista della città, partirono alla volta di Torino per consegnare una richiesta riassunta in cinque punti:

1) convocazione ogni dieci anni del parlamento;

2) riconferma di tutti i privilegi;

3) la riserva degli impieghi militari e civili ai sardi;

4) la creazione di un nuovo ufficio della Reale Udienza con il compito di controllo sulla legittimità dell’operato del Viceré;

5) istituzione a Torino di un ministero per gli affari di Sardegna.

Soldati piemontesi nella torre dell’Elefante durante la celebrazioni per Sa die de sa  Sardigna, parecchi anno fa 

Dal contenuto di queste richieste si può desumere come il popolo fosse  totalmente estraneo in quanto nulla aveva da guadagnare dall’accoglimento di questi punti.  Solo i nobili ed i ricchi avrebbero avuto dei vantaggi e le stesse richieste appaiono banali in un periodo dove forte è il bisogno di giustizia sociale e di conquista dei diritti fondamentali e di lotta all’assolutismo dei regnanti che consideravano il popolo e lo stato una proprietà personale.  Ci si poteva perciò aspettare una forte pressione per ottenere il riconoscimento di nazione ed una costituzione che desse  ai  sardi una dignità personale e politica.  Di indipendenza non si può invece parlare perché il Regno di Sardegna lo era già, almeno formalmente.

La Delegazione Sarda giunta a Torino attese ben tre mesi prima di essere ricevuta dal re che su consiglio del ministro Graneri, a sua volta influenzato negativamente dal Viceré della Sardegna Balbiano, prese tempo non dando nessuna risposta immediata.

Solo il primo aprile del 1794, ben cinque mesi dopo la visita dei delegati, il sovrano inviò una prima risposta, tramite il viceré Balbiano, saltando di fatto i parlamentari sardi, nella quale ignorò quattro delle cinque richieste prendendo in considerazione solo quella che chiedeva l’istituzione di un nuovo ufficio della Reale Udienza.

Ciò determinò l’ira dei nobili e dei signori e del Pitzolo, eroe della lotta contro i francesi, che decisero una   ribellione per il giorno 4 maggio, giorno del rientro di S. Efisio da Nora; la data venne poi spostata alla notte del 28 aprile 1794.

Il Viceré  avuto sentore  della rivolta, senza consultare La Reale Udienza (Istituzione con compiti di amministrazione della giustizia), decise di arrestare l’avvocato Vincenzo Cabras e suo genero Efisio Luigi Pintor considerati capi della insurrezione.

Il 28 Aprile 1794 al momento dell’arresto, Luigi Pintor riuscì a fuggire ed al suo posto venne fermato, per errore,  il fratello Bernardo, anch’egli genero del Cabras.

Luigi Pintor, percorse i quartieri di Cagliari e, facendo suonare le campane di alcune chiese, radunò in breve tempo una folla considerevole che forzò le porte di accesso a Castello,  con l’intento di liberare gli arrestati, mettendo in fuga facilmente la guarnigione, impossessandosi di numerose  armi abbandonate e liberando i detenuti del carcere di S. Pancrazio.

I rivoltosi si ammassarono davanti al palazzo regio e dopo un breve scambio di colpi d’arma da fuoco vi penetrarono mentre il Balbiano fu costretto a rifugiarsi nel vicino Arcivescovado e la folla, a questo punto, chiese esplicitamente ai Piemontesi di lasciare Cagliari e reimbarcarsi per Torino.

La sollevazione che costò una decina  di morti ed un centinaio di feriti,  raggiunse in pieno lo scopo di scacciare i 514  Piemontesi residenti, che si imbarcarono con le famiglie il 30 aprile senza subire altra offesa che lo scherno dei popolani,  mentre il governo veniva  assunto dalla Reale Udienza.

Subito gli Stamenti si affrettarono ad inviare al Re un documento nel quale si sosteneva che la responsabilità dell’accaduto doveva essere attribuita al popolo in quanto massa, senza colpe quindi di determinate persone e che lo stesso popolo rimaneva fedele al sovrano.

Un’altra occasione perduta, in quei giorni di pieno potere indigeno, con il popolo trascinato dalle emozioni che poteva essere usato per qualunque scopo, la prima cosa che invece si fece fu  un atto di sottomissione al sovrano che in quel momento non aveva nessuna possibilità di ristabilire la situazione.

Nel mese di giugno il Re approvò l’istituzione del consiglio di Stato e, parzialmente,  la riserva degli impieghi ai sardi, Pitzolo venne nominato Intendente Generale e Gavino Paliaccio governatore della città di Cagliari.

Queste nomine non vennero accolte favorevolmente dai notabili isolani che ancora una volta si vedevano scavalcati da decisioni prese unilateralmente e senza essere consultati, grande era poi il sospetto che Pitzolo avesse sollecitato l’incarico durante il soggiorno a Torino.

Nel mese di luglio arrivò anche il condono per la sollevazione del 28 aprile e con esso si accoglieva la richiesta, che in realtà non sarà mantenuta, di riunire il parlamento almeno ogni dieci anni; gli Stamenti, ritenendosi evidentemente soddisfatti, concessero così il nulla osta  all’arrivo a Cagliari del nuovo viceré, Marchese Filippo Vivalda. Passò un anno ed i complotti dettati da gelosie ed invidie,  riesplosero con l’uccisione dell’intendente Generale Pitzolo e del generale delle armi Paliaccio.

Analizzando gli avvenimenti, emerge chiaramente che il popolo fu senza dubbio manovrato  e prese parte alle sommosse senza rendersi conto dei veri motivi, perché dopo tante proteste le sue condizioni non variarono e le cose ritornarono esattamente come prima, chi dietro le quinte aveva invece tramato, per scopi non del tutto patriottici, riuscì forse ad ottenere quanto ambiva, ma il seme della discordia e delle divisioni tra signori  era piantato e germoglierà non molto più tardi quando entrerà in scena Giovanni  Maria Angioy.

 

 

 

 

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